venerdì , 22 Novembre 2024

Mediamuseum: viaggio nell’Olanda del ‘600

Il primo saggio è di Timothy Brook (eminente sinologo, docente alla University of British Columbia di Vancouver e professore onorario all’East China Normal University di Shanghai), “Il cappello di Vermeer. Il XVII secolo e gli albori del mondo globalizzato”, dove l’autore ci invita a leggere in modo diverso le opere di Vermeer, non come farebbe uno studioso d’arte, attento all’uso della luce e dei colori, bensí come uno storico che attira la nostra attenzione su un dettaglio, un oggetto, una figura per poi allargare lo sguardo sul vasto e mutevole mondo del XVII secolo. Cosí, la ciotola con della frutta rovesciata su un tappeto turco che vediamo in Donna che legge una lettera ci trasporta verso le rotte commerciali dell’ambita porcellana bianca e blu cinese; mentre il sontuoso cappello del galante Ufficiale e ragazza che ride ci conduce in Canada, dove gli esploratori europei ottenevano dai nativi americani pelli di castoro in cambio di armi. Quelle pelli finanziarono i viaggi dei marinai che cercavano nuove rotte per la Cina. E proprio lí, con l’argento estratto in Perú, gli europei comprarono in gran quantità quelle porcellane che tante volte compaiono nei quadri della pittura olandese dell’epoca. Come scrisse Cartesio, nel Seicento Amsterdam era «un inventario del possibile». Questo libro illustra nei dettagli la ricchezza e le implicazioni di tale inventario, dimostrando come il fatto di avere a disposizione «tutte le merci e le cose curiose desiderabili» abbia ridisegnato il mondo moderno fino a prefigurare il nostro.

Il secondo saggio è di Steven Nadler (professore di Filosofia presso l’Università del Wisconsin-Madison), “Il filosofo, il sacerdote e il pittore. Un ritratto di Descartes”: non è affatto strano se due sacerdoti cattolici che vivono in un paese a dominanza protestante fanno amicizia, specie se a legarli sono anche interessi artistico-intellettuali e se uno di loro – che si picca di essere un musicista di vaglia – suona ben volentieri le sue composizioni per intrattenere l’amico nelle lunghe e freddissime serate invernali. Ed è altrettanto comprensibile che i due accolgano a braccia aperte nel loro minuscolo cenacolo culturale un correligionario straniero, uno schivo studioso francese che, a quanto pare, desidera soltanto essere lasciato in pace, a scrivere. Quando poi, dopo dieci anni di frequentazione, lo straniero parte per un paese lontano, farlo ritrarre per ricordarne l’aspetto è il gesto piú spontaneo e affettuoso che ci si possa attendere da un rattristato amico. Semplice. Chiaro e distinto, anzi. Perché, se l’innocua vicenda si svolge in Olanda alla metà del Seicento, lo straniero può facilmente chiamarsi René Descartes e il pittore a disposizione rischia di essere Frans Hals… Con la consueta amabilità, Steven Nadler ci guida questa volta in un insolito viaggio filosofico-culturale attraverso un periodo cruciale per la storia del pensiero, quanto straordinario per la fioritura artistica. Quadri celebri e celebri trattati – le Meditazioni metafisiche, le Passioni dell’anima, i Principî della filosofia – vedono la luce e si mescolano sullo sfondo del Secolo d’oro olandese, tra polemiche teologiche, gare musicali e la vicenda di un piccolo, controverso, ritratto attribuibile a Hals. Dopotutto, c’è una sorta di logica barocca nel fatto che, nel nostro immaginario, la piú celebre immagine di Descartes non sia la tavola originale del maestro, bensí la splendida copia di ignota mano che oggi ammiriamo al Louvre: un destino iconografico che avrebbe forse strappato un sorriso al filosofo del dubbio.

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